Come se io non fossi

Il mio primo impatto con il reparto di chirurgia plastica non è stato dei migliori.

Il giorno del pre ricovero un medico entra nella stanza e chiede Cosa abbiamo domani? Risposta dell’infermiera Un naso, un seno, un melanoma. Avrei voluto presentarmi Piacere io sono il seno ma a me tocca la prossima settimana. 

Uscendo dalla stanza incontro un’altra infermiera, in realtà è una OSS ma noto che ha la stessa espressione della prima, sembrano entrambe risentite di qualcosa… Solo quando sono uscita dal reparto ho realizzato che avevano entrambe le labbra rifatte ed era questo a conferire loro quell’espressione imbronciata. Mi è venuto un po’ da ridere, ma giusto un po’… per una che proclama la bellezza della diversità è già abbastanza.

E domani tocca a me. Chissà se sarò il primo seno della giornata o l’ultimo. Se c’e un naso prima di me o cosa. Chissà se si ricorderanno  che su quel tavolo di acciaio c’è una persona, una donna che vuole riprendersi la propria vita interrotta ma che non accetta di essere considerata solo un organo. Questo è ciò che mi fa più paura, insieme al dolore fisico, quella sensazione che tutto si svolga come se io non avessi voce in capitolo, come se io non ci fossi. Quella sensazione di freddo e di solitudine. Passerà. E mi toccherà sopportare tutte  le simpatiche persone che scherzeranno sul mio   décolleté senza riflettere sulla sofferenza che c’e dietro. Per carità ci scherzo anche io ma da questo a rimuovere l’idea del dolore ce ne passa. Il dolore non è cool…

Diagnosi

Scrutate l’ala spezzata
con i paraocchi dogmatici
della vostra santa scienza
come se io non ci fossi.
Come se io non fossi.
Come se non ci fosse un nido
da cui sono caduta.
Come se non ci fosse
una storia, un corpo, un amore
oltre la vostra diagnosi.
Eppure
sono questi i dettagli per cui vivo.”

(Chiedo scusa per l’autocitazione ma ci sta)

Prossimi aggiornamenti appena possibile.

Note a margine

A margine del convegno AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) a cui sono stata invitata come relatrice per presentare il Metodo Caviardage come cura, faccio una piccola riflessione.

Indubbiamente per me è stata una esperienza forte che mi ha dato la possibilità di vivermi ancora come “paziente” nel senso che mi ha convinto della necessità di inglobare in me questa dimensione. Certo trovarmi lì tra oncologi e infermieri a un convegno nazionale inizialmente mi ha spiazzato. In quel transatlantico dell’hotel Marriot a Roma poi il senso di smarrimento era centuplicato.

Mi sono chiesta che ci facessi lì. Ma ho capito che la mia presenza era importante, insieme a quella di altri pazienti che hanno portato la loro testimonianza. Importante perché senza pazienti non ci sarebbero medici e infermieri. Importante perché di noi si parlava ed era giusto che anche noi dicessimo la nostra.

A dire il vero nella  sessione degli oncologi si parlava di malattie, cure, medicine attraverso grafici e paroloni come se fossero rivolte a una entità astratta, il paziente non veniva quasi nominato. Nella sessione degli infermieri c’era più consapevolezza, c’era umanità, c’era professionalità. Perché l’empatia, la cura del paziente nella sua globalità fanno parte della professionalità. Se no si è medici a metà. Ma questo certi professoroni non lo capiranno mai. Dobbiamo essere noi pazienti a prendere consapevolezza e a mandare a quel paese questi personaggi. Quelli che ti guardano con condiscendenza, che calano la loro scienza dall’alto, che non ti ascoltano, quelli che devi solo ringraziare perché in fondo ti stanno facendo un favore.

Siamo noi che facciamo un favore a loro, se non ci fossimo noi non sarebbero nessuno e con la loro aria di superiorità potrebbero solo gonfiare palloni che non andrebbero lontano. Noi siamo più numerosi e più forti. Possiamo cambiare le cose. Non servono gesta eroiche o eclatanti. Basta semplicemente non tornare da quel medico che non ci ha guardato negli occhi, che ha sorriso delle nostre domande spaventate, che ci ha liquidato frettolosamente, che si è negato al telefono ma che non ha esitato a farsi pagare quanto non gli era dovuto.

A livello personale l’esperienza del convegno AIOM ha rafforzato la convinzione che è importante aiutare le persone che si ammalano di cancro a tirar fuori le parole. E il Metodo Caviardage con la sua forza catartica è uno strumento utile. Non l’unico ma questo so fare e vorrei davvero mettere la mia esperienza al servizio degli altri, aiutare le altre persone a non avere paura del cancro perché la pausa non ti permette di vedere oltre.

Ci sono state tante polemiche inutili sulla definizione del cancro come dono data da Nadia Toffa. Io penso che il senso non fosse che dobbiamo ringraziare di averlo ma che dobbiamo imparare a guardarlo come possibilità. Possibilità di vedere noi stessi e gli altri in modo diverso, possibilità di ascoltare il proprio corpo, possibilità di scoprire che la bellezza è nascosta anche qui, se la sappiamo vedere, se non abbiamo paura.

Mi piacerebbe che al prossimo convegno AIOM si parlasse di questo, delle parole che curano e delle possibilità che si aprono, delle paure e dei sogni, dei progressi della scienza e di come migliorare concretamente la vita dei pazienti e delle famiglie intorno a loro. E mi piacerebbe che ci fosse una sessione unica in cui oncologi e infermieri si confrontassero con i pazienti e non sui pazienti.

Perché solo un’alleanza medico-infermiere-paziente può curare, anche se non sempre guarire, il cancro.