Il potere del voto e del (pre)giudizio

“Avevate ragione prof quando mi dicevate che J. avrebbe dimostrato con il tempo il suo valore e le sue qualità! Ieri ci sono stati i colloqui e finalmente sono rientrata serena e fiera di lui. Ha avuto una bella pagella perfino un 6 in matematica e fiera di aver udito degli elogi dal prof. che lo ha descritto con due parole: Un ragazzo d'oro! Sono felice e ho voluto trasmetterle le mie emozioni… Non potevo non farlo! Siete stata l'unica a credere in lui e a incoraggiarlo sempre…”

Questo messaggio arrivatomi qualche giorno fa mi offre un assist per una piccola riflessione nella famigerata settimana dedicata agli scrutini del primo quadrimestre. Qual è il compito di noi docenti? Questa la domanda di partenza. Sembra esserci una divisione netta (una delle tante) all’interno della “categoria” tra coloro che considerano l’insegnamento una missione e coloro che la considerano una professione. Inutile diatriba perché la professionalità di un docente sta anche nella capacità di creare relazione, di entrare in comunicazione con il discente e non lo si può fare mantenendo le distanze. Questo significa fare i “missionari”? Non credo, si può parlare però di vocazione, rimanendo nella sfera dei termini religiosi, e nella vocazione dell’insegnante c’è lo studente. Il suo fine ultimo è quello.

Nessuno escluso mai è il mio motto da insegnante (preso in prestito da don Italo Calabrò). Non si tratta di ”buonismo” come qualcuno crede. Sostenere i miei alunni, sempre, non significa coprirli, scusarli ma incoraggiarli a tirar fuori il bello e il buono che hanno dentro. Aiutarli a scoprire le loro qualità, aiutarli a correggersi la dove serve. E mi sono sempre scontrata con i pre-giudizi di colleghi secondo cui se un ragazzo non è portato non riuscirà mai, se è svogliato resterà tale per tutta la sua vita scolastica, se non sa fare le equazioni non sarà mai in grado e così via.
E sono spesso proprio questi docenti a tirar fuori dal cilindro il concetto di merito, perché se meriti vai avanti, se non meriti stai fermo un giro. È la meritocrazia. Giustissimo. Ma chi decide chi merita e chi no? Chi stabilisce i criteri? Alla fine quali sono i ragazzi che bocciamo? Quei poveri figli che vivono in famiglie disagiate quando non disastrate, i figli affidati a uno dei genitori perché l’altro diocenescampi, i figli di certi quartieri, i figli di padri in carcere e madri che si barcamenano, i figli seguiti da assistenti sociali, i figli che hanno “visto cose che non avrebbero mai dovuto vedere”. La mia opinione, suffragata da opinioni ben più autorevoli, è che la classe insegnante sia fondamentalmente classista e il nostro sistema scolastico sia basato sulla disuguaglianza. Vi è una disuguaglianza di partenza che molti insegnanti perpetuano, anzi accentuano. Questa cosa mi ha fatto e mi farà sempre incazzare.

Vi è a questo proposito un bel libro di Cristian Raimo, Tutti i banchi sono uguali, edito da Einaudi nel 2017 che dice assolutamente questo e lo fa molto meglio di me e con molta più esperienza. Non a caso il sottotitolo del libro di Raimo è: La scuola e l’uguaglianza che non c’è.

Tra le altre riflessioni, Raimo parla della competitività che viene incoraggiata in tutti i modi, competitività (leggasi concorrenza) tra le scuole, tra i genitori (me lo scriveva qualche giorno fa un’altra mamma), tra gli studenti e dulcis in fundo tra gli insegnanti per accaparrarsi il cosiddetto bonus premiale. In questo tipo di sistema le disuguaglianze non possono che rafforzarsi venendo così meno al principio della scuola pubblica sancito dalla Costituzione. Se disuguaglianza e competizione sono i valori che trasmettiamo ai nostri alunni come possiamo sperare di formare dei cittadini consapevoli, in grado di interagire in modo empatico con gli altri, in grado di prendersi cura degli spazi in cui vivono. Verso cosa stiamo andando? O forse ci siamo già. E noi docenti cosa facciamo per contrastare questa deriva? Saliamo sul piedistallo e dall’alto giudichiamo, classifichiamo, mettiamo i voti.

Scrive Cristian Raimo:

L’ambizione di fare una scuola che non lasci indietro nessuno non è quella che hanno la maggior parte degli insegnanti italiani. Esacerbati da classi affollate, da stipendi bassi, da un riconoscimento professionale sempre piú misero, molti dei miei colleghi applicano una specie di vendetta risentita attraverso l’unico strumento che sembra essergli rimasto a disposizione.

Purtroppo è così. E succede anche questo:

Qualche anno fa un mio collega di greco aveva rimandato con cinque una ragazza che era rientrata a scuola dopo quattro mesi di ricovero in una clinica per disturbi dell’alimentazione; per me era già un risultato averla di nuovo a scuola, e mi sembrava inutile non portare quel cinque a sei e proporle un programma di rafforzamento di studio per l’estate. Questo collega mi rispose: eh, lo so, ma è la griglia. Già la griglia. E qui si apre un’altra questione che s’intreccia al tema delle disuguaglianze, quella della valutazione.

Questi sono giorni di scrutini… Non li rimpiango per niente. Non solo per la fatica di rimanere 14 -15 ore fuori casa ma soprattutto per lo stress emotivo. Ogni volta mi sembrava di andare in battaglia e di solito mi prendeva una gran tristezza perché l’impegno, l’entusiasmo, il crescere, mio e degli alunni, si dovevano tradurre in un voto. Niente più sfumature. O 4 o 6, o dentro o fuori. E certi docenti con le loro piccole meschine vendette… Il tutto in una corsa contro il tempo per cui se vuoi discutere in maniera più approfondita di un ragazzo vieni guardato male, c’è una tabella di marcia da rispettare. Sessanta minuti minuti per discutere di 25 alunni!  Davvero mortificante e alla fine ogni volta dentro di me pensavo “ingiustizia è fatta” perché mettere un voto è di per sé una ingiustizia cui si aggiunge la disuguaglianza applicata come scienza di cui ho detto. Sono contenta di essere fuori dai giochi quest’anno. Almeno questo mi è risparmiato.

Lo spogliatoio di superwoman

C’è una cosa che mi diverte molto. Ci sono tre spogliatoi che collegano la sala d’attesa con la sala della terapia. Quando mi chiamano entro nello spogliatoio così come sono vestita e chiudo così chi rimane nella sala d’attesa vede il colore della serratura da verde diventare rosso. Mi spoglio e indosso una camiciola di cotone bianco (sia lode all’infermiera che ha richiesto questo tipo di camice invece di quelli in carta velina di colore verde che ho sempre trovato orribili e poco funzionali perché troppo leggeri e trasparenti per proteggere dal freddo e da sguardi). Così combinata esco dalla porta opposta (ce ne sono due, come in certi ascensori) e mi ritrovo direttamente dall’altra parte. Comodo e, per me, divertente. Mi sento un po’ come Clark Kent che entra nella cabina telefonica e si trasforma da semplice impiegato occhialuto a superman, superwoman in questo caso. Quando finisco il trattamento di radioterapia, entro di nuovo nello spogliatoio, stavolta dal lato interno, mi rivesto (prima mi cospargo di crema lenitiva all’aloe) e rieccomi nella sala d’aspetto come se niente fosse. Chi sta fuori non ha idea di quello che succede perché esci così come sei entrata e io trovo che questo abbia un valore simbolico molto forte. Perché nessuno, per quanto possa esserti vicino, sa davvero cosa succede dall’altra parte, cosa si prova a trovarsi denudati di tutto, nessuno sa come ci si sente spaesati quando si varca quella soglia e questo vale per tutti gli ospedali, tutti i reparti, che sia una visita, un esame di controllo, un intervento chirurgico, una terapia… sei solo con te stesso. Se sei fortunato trovi un medico gentile che non ti fa sentire un numero o un salame ma comunque sei solo, anche se percepisci la presenza e la trepidazione di chi sta fuori ad aspettarti e non puoi farci niente. Il tempo dall’altra parte ha una dimensione diversa. E allora indossi la corazza da superwoman e fai finta che tutto quello che succede non stia accadendo a te. Fai quello che devi fare, ti rivesti, indossi un sorriso e sei fuori.

Il potere della bellezza (e il suo contrario)

Ed eccomi a raccontare – e a vivere – una nuova avventura. Ho iniziato da qualche giorno la radioterapia e per il momento mi sembra che tutto proceda bene. Il reparto di radioterapia dell’ospedale di Brindisi è pazzesco. Sembra di stare in una clinica svizzera (o meglio così mi immaginerei una clinica svizzera). È un reparto di eccellenza e sono orgogliosa che si trovi nella mia Puglia. Tutto è pensato per fare sentire bene il paziente. Parlo degli spazi ma anche del personale, infermieri e medici. L’atmosfera è molto rilassata e non sembra (quasi) di stare in ospedale. Anche l’organizzazione è svizzera! A cominciare dal parcheggio riservato per i pazienti (e nessuno che ti chieda un “contributo” come è di prassi in tutti gli ospedali di Bari). Quando arrivi strisci il tuo tesserino sanitario e il sistema ti registra, sa che ci sei e quando arriva il tuo turno ti chiamano, senza l’ansia provocata dall’accaparraggio delle attenzioni dell’infermiere o dell’incaricato di turno. Un sistema semplicissimo. Il tesserino sanitario ce l’hanno tutti, perché non sfruttarlo per migliorare un servizio? La sala d’aspetto è piccola e accogliente, con una gigantografia del bellissimo porto di Brindisi e un acquario che però in questi giorni è imballato (poco male, gli acquari mi intristiscono). Al centro campeggia uno schermo Tv sempre acceso e questa è a mio parere l’unica pecca. Grave. Si cerca di infondere bellezza con gli arredi, con i quadri, le foto, i colori e poi si permette alla bruttezza, all’osceno di riassalirci. Mi sembra una vanificazione di tutti gli sforzi fatti nell’altra direzione. Ma dico io, spegnetela o mandate in onda solo documentari, mettete qualche rivista in più, qualche libro… e invece mi tocca subire quelle trasmissioni che colonizzano le menti di casalinghe e/o pensionati tutte le mattine e i pomeriggi. Davvero terribili. Ed è per me terribile rendermi conto di come hanno distrutto le menti di chi doveva rappresentare il nostro patrimonio di saggezza. È terribile vedere come si fa disinformazione assurgendo ogni chiacchiera da bar a notizia, di come si scambia la leggerezza per stupidità, di come tutto venga annacquato in un cocktail di comparsate, consigli disparati, ammiccamenti, arrabbiature da giustizialisti della prima ora. Vabbè sto divagando ma per me che non sono abituata a queste trasmissioni l’osceno salta subito all’occhio, poi magari mi assuefarei anche io. Anzi sono convinta che dopo una settimana di questo trattamento comincerebbe a sembrarmi tutto accettabile. Ma io resisto e faccio il mio Caviardage cercando di tapparmi le orecchie. Per fortuna comunque l’attesa dura poco, niente a che vedere con le ore passate in attesa della chemioterapia. E credo che scriverò questa cosa sull’agenda messa a disposizione dei pazienti per consigli e suggerimenti.
Altre cose degne di nota. La saletta della dottoressa arredata in giallo e blu, il quadro che ti accoglie quando entri nella sala delle terapia, rappresenta una spiaggia, con dei fichi d’india in primo piano da un lato e dall’altro i 4 libri sacri, più Siddharta. E poi c’è la magnifica vetrata che sovrasta la macchina per la radioterapia. Il primo giorno è stata dura rimanere nella stessa posizione e con le braccia alzate per un’ora e se non ci fosse stata la vetrata forse non avrei resistito. È una vetrata colorata, giallo, verde, azzurro, su cui si affacciano rami in fiore e foglie. Il primo giorno, mentre intorno a me le dottoresse facevano calcoli su calcoli (veniva fuori sempre 100 e invece doveva essere 98, ma non ci ho capito niente), mi sono concentrata tutta nello sforzo di capire se quei fiori fossero veri. Mi sembrava si muovessero seppure impercettibilmente ma era una illusione ottica, o un desiderio, perché quando dopo hanno acceso le luci è stato chiaro che i fiori sono finti, cioè sono dipinti, credo, o sono delle foto, non mi è ancora chiaro ma l’effetto è stupefacente. La bellezza rilassa e calma la mente. Ce ne fosse di più, in tutti gli ospedali ci sarebbe più serenità.