Ginestre e mandorli in fiore

Nel febbraio del 1890 Vincent Van Gogh dipinse un meraviglioso quadro per la nascita del suo nipotino Vincent. Un ramo di mandorlo in fiore che simboleggia l’imminente Primavera sognata dall’artista. Un inno alla vita. Delicato e potentissimo. Irrazionale e luminoso. Pochi mesi dopo aver dipinto quel quadro Vincent Van Gogh si toglie la vita. Sono stata molto tempo a fissare quel quadro, quando alcuni anni fa me lo sono trovata davanti al Museo Van Gogh di Amsterdam, affascinata dalla sua struggente bellezza, rimuginando e cercando di capire quel passaggio che dalla vita porta alla morte, dalla speranza alla disperazione, dalla luminosa primavera all’inverno più nero.
Qualche giorno fa Romina, un’amicolla, mi ha spedito una cartolina raffigurante proprio quel quadro. Lei vede in quello “smarrimento della razionalità” un segno di speranza: “ci sono altre prospettive, che non siamo in grado di cogliere, ma possiamo scegliere di credere che esistano”.
L’importanza di avere altre prospettive. Io me le sto creando ma è una gran fatica e mi sembra di non arrivare da nessuna parte. Ho dei progetti, più che altro dei buoni propositi, per i mesi che verranno ma niente di più e non so se avrò la costanza e la forza per portarli avanti. Non so se riuscirò a recuperare in parte l’entusiasmo di vivere. Vorrei poter scrivere, come ho letto in un commento, “ho perso il seno ma ho ritrovato il senno” ma per il momento il mio è ancora sulla Luna e nessun Astolfo può aiutarmi, ci devo pensare da me.

Tornando al quadro di Van Gogh che fa strada a una mia riflessione, una domanda senza risposte. Ricordo benissimo (e credo non dimenticherò mai) la giornata del 7 febbraio di quest’anno. La giornata in cui sono passata dalle stelle alle stalle, dalla gioia della vita alla paura della vita. La mattina in classe arriva la troupe della Rai per registrare un piccolo servizio per la rubrica “Obiettivo scuola” del Tg3 (poi andato in onda il 15 febbraio). Qualche mese prima avevamo già avuto l’esperienza della troupe televisiva di Telenorba che ci aveva intervistato per lo stesso motivo: il primo premio nazionale vinto dalla nostra classe per il Concorso “tracce di viaggio”. Però quella mattina fu speciale, ho visto le scintille negli occhi dei miei ragazzi e abbiamo imparato tanto. È stata una vera e propria lezione. Di vita soprattutto. Io mi sentivo felice, spossata ma contenta. Non di me. Del tutto. Di quello che stava succedendo con la classe, delle emozioni che stavamo vivendo, del momento di gloria che ci stavamo godendo. La scuola è anche gioia, soddisfazione, orgoglio non solo fatica, pianti e frustrazione. E lo stavamo dimostrando. Quando sono uscita da scuola con la nuvoletta della beatitudine sulla testa ho ricevuto la telefonata che mi chiedeva di anticipare di una settimana la visita senologica che avevo prenotato. Il pomeriggio la faccia del radiologo e poi le parole del medico hanno trasformato la beatitudine in disperazione assoluta. Ero sola e il cellulare si era scaricato perché ero appena rientrata da scuola e non avevo avuto il tempo di ricaricarlo. Finita la visita, con la testa frastornata e le gambe pesantissime, sono andata dall’estetista, in forte ritardo rispetto all’appuntamento, e da lì ho potuto mandare un messaggio all’husband che era in collegio docenti. Entrambi ce lo ricordiamo benissimo quel messaggio. Rimane una cosa nostra. Penso spesso a quella giornata di stelle e stalle. Non ci vedo un disegno soprannaturale, una punizione divina, una legge del contrappasso o chissà che. Semplicemente la vita. Che ha sull’altra faccia della medaglia la morte. Ogni volta che gioiamo e ogni volta che soffriamo dovremmo tenere sempre a mente che la vita dà e la vita toglie. Non per punire qualcuno piuttosto che un altro. Ma perché è così. Sulla strada ci sono tante salite quante discese. Dovremmo vivere con più serenità, arrabbiarci di meno, goderci ogni momento, anche quelli brutti perché sono unici. A me è capitato di vivere in un’unica giornata tutte le sfumature delle emozioni e questo mi ha permesso di comprendere alcune cose. Tutto qui.
Mi sono interrogata sul senso della vita anche in queste ultime settimane pensando a un’altra amicolla, Jenny. Era il suo momento, un libro in uscita e alle spalle un movimento di insegnanti che la seguono con attenzione e affetto. Poi la batosta. Di quelle che fanno male davvero. Che tolgono il respiro solo a immaginarle. Penso a lei ogni giorno, a quello che ha dato a tutte noi e a quello che può ancora dare. Penso a me e a lei. Non c’è un disegno oscuro, nemmeno un disegno chiaro. Non c’è proprio un disegno. Jenny non lo merita, io non lo merito, nessuno merita di soffrire. C’è stato un momento in cui ho chiesto al vento “Che ho fatto di male?” Domanda sciocca e inutile, dettata dallo sconforto.
Mi sovviene il Dialogo della Natura e di un Islandese. Per me, uno dei momenti più alti della riflessione filosofica di Leopardi. Chiamiamolo Dio, Jahvè, Allah, Provvidenza, Destino, Caos, Caso, Natura… non si occupa di noi. Punto. C’è o non c’è non mi interessa, è un’altra questione. È che questa è la vita. Fatta di piccole e grandi gioie, piccoli e grandi dolori e poi passa, non c’è più, non ci siamo più noi. A me fa paura la vita. Credo da sempre. E ora che mi trovo a vivere quello che mai avrei immaginato di poter vivere, vivo con più consapevolezza ma non con meno paura. Forse ci arriverò a non avere paura di vivere. Non so. Sono in cammino. C’è qualcosa che noi possiamo fare per avere meno paura? Ci viene in aiuto ancora Leopardi in uno dei suoi ultimi canti, La ginestra. Il suo testamento poetico.

 

E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena

È, la sua, una riflessione sull’umanità che potrebbe essere stata scritta nel nostro secolo, altrettanto e ancor più “superbo e sciocco”. E la social catena che stringe noi mortali è il vincolo sociale, l’umanità che ci lega gli uni agli altri, le une alle altre. Ieri come oggi, con modalità diverse (oggi i “social” esistono davvero e condizionano le nostre vita ma sono solo un mezzo, non sostituiscono la vita…).
È nella consapevolezza di un destino comune, la salvezza. È nel profumo della (odorata) ginestra “contenta dei deserti” che si spande nonostante.
E noi? Noi possiamo essere lente e appagate ginestre o meravigliosi mandorli in fiore e inebriare l’aria intorno con il nostro profumo e goderci il sole della primavera con la consapevolezza del deserto e dell’inverno, che prima o poi arriva. Oppure.

Lucignoli

Mi sono imbattuta nelle scorse settimane in due storie trovate in rete. Una riguarda un avvenimento accaduto 24 anni fa, nel 1993, di cui ho un ricordo vivido: il rapimento e l’uccisione di un bimbo di due anni da parte di due bambini di 10 anni. Allora si parlò di mostri e si sprecarono molte parole. Nell’articolo che ho letto vi è descritta con minuzia di particolari tutta l’escalation di violenza che portò all’uccisione del bambino. Una storia terribile. Ma andando avanti nella lettura dell’articolo mi ha colpito un particolare. Dalle indagini sulle famiglie dei due bambini si scoprì che uno era stato ripetutamente violentato dal padre alcolista, l’altro figlio di genitori divorziati, entrambi definiti depressi patologici, veniva continuamente preso in giro dai compagni per via del suo strabismo. A scuola era oggetto di bullismo finché non conobbe l’altro bambino e si trasformò a sua volta in un bullo. Fin qui tutto abbastanza normale, nel senso che sono dinamiche piuttosto diffuse.
Ciò che mi ha fortemente turbato nell’articolo è questa frase: “Poiché i due ragazzi disturbavano lo svolgersi delle lezioni, gli insegnanti avevano preso ad isolarli. Con il passare del tempo i due avevano iniziato a marinare la scuola sempre più spesso e a vivere sulla strada” (immagino con buona pace degli insegnanti che avevano così risolto un loro problema).

La seconda storia in cui mi sono imbattuta è accaduta qualche settimana fa ed è stata raccontata dal sindaco di Bari. C’è un ragazzino che nel quartiere Libertà tutti chiamano “il terribile”. Sempre in giro con la sua bici alla ricerca di qualcuno da infastidire. Un cineforum all’aperto è un’occasione troppo ghiotta ed eccolo sfrecciare sulle sue due ruote, con il suo repertorio di parolacce, grida, insulti rivolti alla folla che pian piano si stava formando. Succede che a un certo punto il ragazzino si stanca di dare fastidio e si siede sulla gradinata con gli altri a vedere il film (che parlava di mafia). La storia continua. Due settimane dopo il sindaco torna nello stesso luogo in occasione di un piccolo concerto all’aperto. Il terribile è sempre lì, con la sua immancabile bici. Saluta e poi sfodera il suo solito repertorio. Sfidando apertamente l’adulto. A rimproverarlo. A trattarlo male come tutti. E invece l’adulto non lo rimprovera ma nemmeno lo ignora. Lo guarda. E quando gli volta le spalle, giusto 5 minuti in cui non lo guarda, succede che il ragazzino lascia la bici, si va a sedere accanto a lui e lo abbraccia. E gli dice una cosa, in dialetto: A ME devi guardare!

Ecco. Penso che la chiave per capire i nostri adolescenti, figli o alunni, sia guardarli. Non con il cipiglio del rimprovero ma con amorevolezza. Non condiscendenza ma premura. Non indifferenza ma attenzione. Non buonismo ma comprensione e rispetto reciproco.
Mi sono tornati in mente i tanti ragazzi di questo tipo che ho incontrato. In realtà non li ho dimenticati mai, come non ho dimenticato nessun alunno. Io li chiamo lucignoli. E li ricordo tutti. Dai gemellini terribili di Trinitapoli, Francesco e Pasquale, a Vincenzone (quanto vorrei rivederli, sapere di loro). Poi il più lucignolo di tutti, che anche per assonanza con il suo cognome veniva chiamato (dagli adulti) Lucifero. Quanti progetti per lui, quanti tentativi, quanti fallimenti. Quanta pazienza. Quanta insofferenza. E lui chiedeva una sola cosa: guardatemi. E lo chiedeva, lo gridava, lo pretendeva in tutti i modi sbagliati, gli unici che conosceva. Ragazzo dotato di una bella intelligenza, nato in una famiglia sbagliata. Chissà cosa combina, se ha trovato il suo equilibrio. Poi G., avuto in classe solo per mezzo anno. Bellissimo e sensibile (il metodo caviardage non sbaglia!), nascondeva la sua fragilità dietro un continuo interrompere la lezione. Anche lui chiedeva solo di essere guardato. Famiglia di tutt’altro tipo. Mi è dispiaciuto tantissimo non ritrovarmelo in terza. Ero sicura che avremmo fatto bei progressi insieme. Ma la maggior parte delle colleghe di classe ha tirato un sospiro di sollievo. Il problema lasciamolo a qualcun altro. Ho avuto anche una meravigliosa lucignola. Come dimenticarla. Una ragazzina imponente e impositiva, bugiarda e manesca ma che sapeva essere amabile quando voleva. Quante promesse. Sincere ma non vere. Quante lacrime, quanta rabbia, quanto desiderio di amore incondizionato, quanta voglia di crescere e di riprendersi quello che le era stato tolto.

Quest’ultimo anno una prima bellissima con molte situazioni problematiche. Di lucignoli ce n’erano parecchi. Mi soffermo su due, senza fare nomi. Sotto alcuni aspetti mi ricordano i due bambini di Liverpool (storia famigliare e rapporto tra i due). Ragazzini fragilissimi, che a 11 anni avevano visto cose che molti adulti non vedono in una vita. Difficilissimi da gestire. Soprattutto insieme. Di uno mi sono innamorata subito. I suoi occhi fin dal primo giorno dicevano: guardami, amami. Anche con lui il Metodo Caviardage non ha mentito. Quando si è capito cosa succedeva quando il padre veniva avvisato delle note ho pregato i miei colleghi di non metterne più. E poi c’era l’altro, è arrivato in classe più tardi e l’ha destabilizzata. Nulla è stato più come prima dal suo arrivo, lezioni faticose e continuamente interrotte. Clima in classe completamente cambiato, le mie meravigliose bambine impaurite, i maschietti inesorabilmente attratti dai suoi modi. Una spirale infernale. Pian piano si è riusciti a far comprendere alla classe il concetto di tagliare la miccia, la miccia è chi sta intorno, se la tagliamo, se spezziamo la catena, la bomba non esplode. Un passo avanti e due indietro. Poi ancora un passo avanti e poi uno indietro. È così con questi bambini anche perché noi docenti non siamo messi nelle condizioni di poter davvero fare qualcosa e a un certo punto siamo costretti a scegliere. Salvarne uno o salvaguardare gli altri 23? Le energie e i mezzi a disposizione non sono sufficienti per salvare capra e cavoli.
Eppure qualche timido miglioramento c’era stato e ce ne sarebbero potuti essere altri. Ma noi adulti non ci accontentiamo, noi vogliamo che loro, i piccoli mostri, i lucignoli, gli asini, i terribili diventino esattamente come noi pretendiamo che siano. E loro che a volte ce la mettono tutta ma proprio non riescono vedono frustrati tutti i loro tentativi di adeguarsi, di essere bravi, di essere come gli altri. Per poter essere accettati. Ma noi non li accettiamo, non ci basta essere interrotti due volte invece che cinque, noi vogliamo fare lezione senza essere disturbati. E così si ritorna al punto di partenza perché se tutto quello che faccio per comportarmi meglio non viene riconosciuto tanto vale continuare a fare il terribile. Così almeno mi vedranno.

Ricordo di aver fatto una riflessione e ne ho parlato con alcune colleghe e poi alle mamme che giustamente venivano a lamentarsi per il linguaggio, i gesti, le minacce… Noi possiamo mettere fuori lucignolo e salvaguardare gli altri. Ma la scuola è l’unica possibilità che abbiamo per fargli capire che esiste un altro modo di stare al mondo, di rapportarsi agli altri. La scuola è l’unica possibilità che ha per essere accettato e amato. Se gliela togliamo ne faremo un delinquente e avremo sì salvato i nostri figli dalle sue angherie ma avremo contribuito a peggiorare quella società in cui i nostri stessi figli vivranno. Discorso complesso. Ho provato comunque a farlo pur nella consapevolezza dell’impotenza. Perché non basta la buona volontà per risolvere situazioni così difficili. Lo sapevo e lo so.
Non esiste certezza di niente però non posso fare a meno di pensare che forse se quei due bambini che disturbavano la lezione nella lontana Liverpool non fossero stati isolati dai loro insegnanti (che cosa terribile), se avessero trovato adulti che li avessero guardati, che avessero visto le tragedie che si portavano dentro, se avessero trovato qualcuno capace di tirar fuori la bellezza… forse il piccolo James sarebbe ancora vivo. È un forse. Ma abbiamo il dovere di chiedercelo ogni giorno.
Per i mie due lucignoli che ho abbandonato anzitempo con il cuore spezzato (e non solo loro) è finita che uno è stato promosso con 3 debiti (tra cui arte e musica… e taccio), l’altro è stato respinto e ripeterà per la terza volta la prima. E ci saranno altri bambini da proteggere e altri genitori da rassicurare…