Il potere del tempo

Maggio è sempre stato un mese particolare per me, il mese dei fantasmi e delle domande senza risposta. Questo maggio lo è ancora di più perché il ricordo di un anno fa è molto vivo e ogni giorno faccio paragoni (un anno fa non potevo fare questo, un anno fa non pensavo questo, un anno fa non mi sentivo così…) e assaporo ogni attimo perché tutto ha un gusto nuovo. (Eppure un anno fa sono riuscita a gettare qualche seme, seppure con fatica. Uno è questo blog, nato intorno al bando “Una cartolina per Mella” in un momento in cui vedevo tutto nero.)
Il tempo ha assunto una dimensione diversa in questo anno. Ne ho avuto tanto a disposizione ma erano le cure a dettare i ritmi, e sono negli utlimi mesi ho iniziato a dettare io le regole ma i patti sono chiari: non devo strafare. E mi viene facile rispettarli perché tutto è rallentato e io non sono più multitasking. Non riesco più a sovrapporre i pensieri, già faccio fatica a concentrarmi su una cosa per volta, figuriamoci due! perciò se due persone mi parlano contemporaneamente non capisco, abbiate pazienza. È che il mio cervello rifiuta le sovrapposizioni e le complicazioni. Questa roba qui la chiamano “wandering” e pare sia un effetto delle cure necessarie per combattere il cancro, chemioterapia in primis. Ce li dobbiamo tenere insomma, insieme all’insonnia, al mal di testa e ai dolori articolari che invece sono conseguenza del tamoxifene, un regalo per i prossimi 4 anni… E senza nessuna comprensione altrui.

Ma in questo tempo al rallentatore mi ci trovo bene e alla fine sto riuscendo a fare tante cose in queste lunghe giornate. Questa dimensione mi mancherà quando tornerò alla vita a-normale che fanno tutti, in cui è il tempo a comandare. Vedo le persone correre e affannarsi e le sento giustificare questo correre e affannarsi con la mancanza di tempo, con la necessità di fare fare fare. Sono stata anche io così, immagino, ma oggi tutti mi sembrano marziani e vorrei dire Ma perché non ti ascolti? Perché non ti fermi? Dove corri? Perché ti agiti? Perché urli? Spero di conservarlo questo distacco, di non perdere questo sguardo incerto che scopre meraviglie andando piano.

Qualche settimana fa passando davanti a una scuola ho sentito le voci concitate degli alunni e ho visto due docenti dirigersi a passo svelto verso l’ingresso, parlando e gesticolando in maniera frenetica. Mi sono immaginata da settembre e mi sono detta che non sarà facile per me. Permettere al tempo di farla da padrone, di gestire la mia vita dandomi i ritmi della sveglia, dei pasti, del sonno, persino quelli per andare in bagno… No non posso permetterlo, devo trovare il modo per avere il mio giusto spazio altrimenti mi ammalerò di nuovo. In questi mesi la mia creatività è al massimo, ho tanti progetti, non tutti si realizzeranno ma non importa, mi sento viva, ed è stato il tempo, il mio tempo, adeguato al mio ritmo che ha dato la possibilità alla mia fantasia di scatenarsi. Penso all’espressione “corsa contro il tempo” e mi dico che io non voglio andare contro il tempo, ma voglio fare del tempo il mio alleato. Dovrebbe essere così per tutti, ma spesso non ci si pone proprio il problema di come stiamo vivendo.

In privato

Pubblico qui il video della breve intervista all’husband andata in onda nella rubrica TgINCASA a cura del Tg3 Puglia (e che dovrebbe essere trasmessa anche nella puntata di “Mezzogiorno Italia” sabato 12 maggio su Rai3: domani!) e lo faccio per 2 motivi. Uno. Perché voglio che stia qui, su questo blog che anche se non aggiorno spesso come vorrei è molto importante per me perché da qui sono ripartita. Non voglio dimenticare nulla di questo momento e della strada fatta per arrivare fin qui: faticosa e in salita ma con scorci mozzafiato e stelle alpine nascoste qua e là. A sapersi fermare. A saperli vedere.
Due. Perché la preparazione a questa intervista, forse più dell’intervista stessa, e i tanti riscontri positivi ricevuti mi hanno riflettere su tantissime cose. Una voglio provare a raccontarla.
Vederla e rivederla mi ha emozionato. In parte perché ho rivisto frammento per frammento tanti particolari della mia casa e della mia vita. Non ci siamo solo noi in quel video ma tante persone che hanno segnato la nostra vita attraverso foto, ricordi, libri… Mi sembra una cosa bella, un omaggio alle persone che in diversi modi ci sono state vicine in questo lungo anno e non solo. C’è anche il nostro gatto coprotagonista, lui che è arrivato quando ho potuto rispondere a chi diceva “non è il momento” che invece era proprio questo il momento. E c’è la mia casa piena di luce, una casa tanto amata ma che presto o tardi lascerò perché hanno reso invivibile il centro storico. Questo video rimarrà sempre a ricordarci di aver vissuto qui.

Ma l’emozione nasce anche dall’aver compreso nella sua pienezza e importanza la scelta dell’husband. Molte persone hanno reagito con scetticismo quando hanno saputo le sue intenzioni, gli hanno consigliato di non farlo perché la scuola ti mancherà, perché stare senza lavorare poi…, perché potresti annoiarti, perché devi respirare etc. Chissà se avrebbero reagito così anche a parti inverse o se in questi tentativi di boicottare una scelta non ci sia anche, consapevole o meno, l’idea che il posto dell’uomo non sia la casa. Io credo che nessuno si sarebbe mai sognato di dire a una donna: non lasciare il lavoro, potresti annoiarti a casa. La casa è il luogo della donna. Anche quando le donne lavorano e stanno fuori casa più dell’uomo.  Ancora una volta è una questione di ruoli, di gabbie che stanno strette anche a sempre più uomini. La sua scelta, dicevo. Che non è solo “non lavoro” ma “sto a casa, con te”. Non è “ti aiuto nell’emergenza” ma “condivido la gestione della casa e mi prendo cura di te”.
E questo discorso del prendersi cura è importante. Perché anche questa è considerata prerogativa esclusiva femminile. Ma non è così, non può essere così oggi. Mi rendo conto che questo mortifica anche gli uomini. Come se loro non fossero capaci di prendersi cura. E perché no? Perché il più delle volte noi donne non glielo permettiamo. Forse è più comodo così per tutti. E arrivo a quello che volevo dire. Ho capito che la cosa più difficile per me, soprattutto all’inizio, dopo l’intervento è stata proprio lasciare che fosse lui a prendersi cura di me, rinunciare al controllo, dare fiducia. All’inizio l’ho fatto perché non potevo fare altrimenti. Fisicamente, e non solo, non ero in grado. Ma col tempo ho capito il senso e la bellezza di tutto questo. Oggi credo che entrambi siamo cresciuti nella responsabilità attraverso la condivisione, la fiducia, l’affidarsi. Abbiamo compreso come uscire dai ruoli, dagli schemi, dalle gabbie non può che far bene, alle singole persone come alle coppie. Perché non esistono più prerogative maschili e prerogative femminili ma al massimo prerogative, caratteristiche, tendenze, preferenze, inclinazioni, passioni di ciascuna persona. Ma queste possono cambiare e se non sei chiuso in un ruolo che altri ti hanno dato e che tu non hai mai messo in discussione il cambiamento avviene senza grossi traumi. Si tratta di cambiare compito, non ruolo. E credo che questo sia il punto di rottura di molte coppie e l’humus in cui crescono i femminicidi, il non saper uscire dai ruoli codificati, il non sapersi reinterpretare, reinventare.
Saremmo tutti più felici se riuscissimo a essere noi stessi, a leggere la vita e a cambiarla prima che lei cambi noi (come nella canzone di Patti Pravo!).

 

Punto e virgola

E così eccoci qui a poco più di un anno dall’entrata nel tunnel del cancro a tirare le somme. Guardandomi indietro mi dico che il peggio è passato, ma non avrei mai pensato di riuscire ad arrivare fin qua. Tante volte ho pensato che non ce l’avrei fatta e invece eccomi qui e oggi posso mettere almeno un punto e virgola.  (Forse il punto non arriverò mai a metterlo, nemmeno quando avrò ricostruito il mio seno, nemmeno quando avrò terminato i controlli, nemmeno quando avrò finito la terapia ormonale perché credo che questa sensazione di fragilitàe di paura non mi abbandonerà più ma forse chissà mi aiuterà a continuare a vedere la vita in modo diverso)
Sono contenta di me, questo mi sento di dirlo perché non mi credevo capace di affrontare quello che ho vissuto e invece passo dopo passo, guardandomi dentro e con l’aiuto di tante persone che mi sono state vicine, ce l’ho fatta. E ora che ho finito anche i cicli di radioterapia mi sento più leggera. Un anno fa ero nel buio e nell’angoscia, ora riprendo a creare spiragli. Mi sento una persona diversa, forse migliore o almeno è quello che spero. E mi anche un po’ spaesata perché fino ad ora le cure hanno dettato le regole delle mie giornate, del mio tempo. Prima la chemio e poi la radio hanno condizionato la mia vita e ora che sono libera dal loro giogo cerco di riprendere il mio spazio anche se faccio ancora fatica in tante cose. Però ci sono i miei progetti, uno si sta realizzando gli altri chissà, e la mia voglia di incontrare persone e diffondere bellezza e poesia. Forse questa è l’unica cosa che posso fare, anche se vorrei tanto poter fare di più per tutte le persone che si trovano a vivere questa e altre malattie.

Il prossimo mese di aprile sarà tutto dedicato alle visite di controllo, che è un altro giro di giostra, perciò vorrei provare a dedicare marzo alle cose che amo fare e alle persone che lo meritano.

Un anno di benettia

Oggi è un giorno particolarmente difficile. Oggi saluto un’amica portata via dal cancro, un’anima bella e luminosa. Mi mancherà. E mancherà a tante persone. Basterebbe guardare il suo profilo fb per capire molto del suo carattere allegro e della sua generosità. Ci sono solo o quasi foto di gruppo, di amici, di momenti di condivisione. Lascia davvero un vuoto e un senso di ingiustizia. E mi fa riflettere sulla bellezza di essere circondati di amici autentici.

Se uso il termine “benettia” in questo post è per renderle omaggio. Quando lo sentito da lei per la prima volta era passato esattamente un mese dal mio intervento, era un periodo molto cupo e proprio non riuscivo a comprendere questa benettia di cui parlava. Io vedevo tutto nero e non capivo quella sua positività, quel trasformare il male in bene. Ho cominciato a capirlo mesi dopo, quando ho iniziato ad apprezzare i doni che la malattia mi offriva, insieme al resto. Credo di aver iniziato a vederli dopo quel giorno e anche se il mio modo di guardare alle cose e di vivere la malattia è diverso dal suo, più introverso nonostante le apparenze, direi più social ma meno comunità, le devo un cambio di prospettiva.

E proprio oggi che il suo viaggio finisce, o forse inizia per chi ha la fortuna di crederlo, “festeggio” un anno dall’inizio del mio. Credo che non dimenticherò mai quella giornata del 7 febbraio 2017 per la particolarità degli eventi che si sono succeduti. La mattina in classe con le telecamere della Rai a immortalare un successo, frutto di tanto lavoro e di energie messe in circolo senza risparmio, i volti radiosi dei miei alunni.
Il pomeriggio una visita di routine anticipata di una settimana, il volto cupo del tecnico della mammografia prima e del medico poi. La sensazione di essere precipitata nell’incubo di qualcun altro e quel sentirmi sola sul cuore della terra, con in più il cellulare scarico. E infatti una delle prime cose che ho fatto nelle settimane successive è stato comprare un cellulare nuovo quasi non volessi più correre il rischio di essere isolata. Era in fondo l’unica cosa cui potessi rimediare. Tutto il resto mi toccava accettarlo così com’era.

Ed eccomi qui un anno dopo. Nel frattempo ho vissuto, ho sofferto e gioito, come tutti e con uno scetticismo di fondo che nascondo molto bene. Ho perso tutto e ritrovato tanto. Non tornerei indietro anche se potessi, credo, oppure sì se potessi incontrare tutte le persone che ho incontrato, ma comunque non posso per cui il problema non si pone. L’intervento, la chemioterapia, e ora la radioterapia… la sofferenza e la paura, ma anche la gioia delle piccole cose. A volte ancora penso che stia succedendo a qualcun altro, perché io non mi sento in grado di affrontare tutto questo, e quando sono sdraiata sul lettino della trilogy, la macchina per la radioterapia, a guardare la vetrata luminosa provo a fingere di essere altrove. Eppure sono io. E sono qui a cercare di crescere in consapevolezza, a cercare di convincermi che la morte è l’altra faccia della vita, a far finta di credere che c’è un senso a tutto.

Spero che tu l’abbia trovato il senso o almeno una risposta plausibile. E chissà se hai continuato a chiamarla “benettia”…

Lo spogliatoio di superwoman

C’è una cosa che mi diverte molto. Ci sono tre spogliatoi che collegano la sala d’attesa con la sala della terapia. Quando mi chiamano entro nello spogliatoio così come sono vestita e chiudo così chi rimane nella sala d’attesa vede il colore della serratura da verde diventare rosso. Mi spoglio e indosso una camiciola di cotone bianco (sia lode all’infermiera che ha richiesto questo tipo di camice invece di quelli in carta velina di colore verde che ho sempre trovato orribili e poco funzionali perché troppo leggeri e trasparenti per proteggere dal freddo e da sguardi). Così combinata esco dalla porta opposta (ce ne sono due, come in certi ascensori) e mi ritrovo direttamente dall’altra parte. Comodo e, per me, divertente. Mi sento un po’ come Clark Kent che entra nella cabina telefonica e si trasforma da semplice impiegato occhialuto a superman, superwoman in questo caso. Quando finisco il trattamento di radioterapia, entro di nuovo nello spogliatoio, stavolta dal lato interno, mi rivesto (prima mi cospargo di crema lenitiva all’aloe) e rieccomi nella sala d’aspetto come se niente fosse. Chi sta fuori non ha idea di quello che succede perché esci così come sei entrata e io trovo che questo abbia un valore simbolico molto forte. Perché nessuno, per quanto possa esserti vicino, sa davvero cosa succede dall’altra parte, cosa si prova a trovarsi denudati di tutto, nessuno sa come ci si sente spaesati quando si varca quella soglia e questo vale per tutti gli ospedali, tutti i reparti, che sia una visita, un esame di controllo, un intervento chirurgico, una terapia… sei solo con te stesso. Se sei fortunato trovi un medico gentile che non ti fa sentire un numero o un salame ma comunque sei solo, anche se percepisci la presenza e la trepidazione di chi sta fuori ad aspettarti e non puoi farci niente. Il tempo dall’altra parte ha una dimensione diversa. E allora indossi la corazza da superwoman e fai finta che tutto quello che succede non stia accadendo a te. Fai quello che devi fare, ti rivesti, indossi un sorriso e sei fuori.

Il potere della bellezza (e il suo contrario)

Ed eccomi a raccontare – e a vivere – una nuova avventura. Ho iniziato da qualche giorno la radioterapia e per il momento mi sembra che tutto proceda bene. Il reparto di radioterapia dell’ospedale di Brindisi è pazzesco. Sembra di stare in una clinica svizzera (o meglio così mi immaginerei una clinica svizzera). È un reparto di eccellenza e sono orgogliosa che si trovi nella mia Puglia. Tutto è pensato per fare sentire bene il paziente. Parlo degli spazi ma anche del personale, infermieri e medici. L’atmosfera è molto rilassata e non sembra (quasi) di stare in ospedale. Anche l’organizzazione è svizzera! A cominciare dal parcheggio riservato per i pazienti (e nessuno che ti chieda un “contributo” come è di prassi in tutti gli ospedali di Bari). Quando arrivi strisci il tuo tesserino sanitario e il sistema ti registra, sa che ci sei e quando arriva il tuo turno ti chiamano, senza l’ansia provocata dall’accaparraggio delle attenzioni dell’infermiere o dell’incaricato di turno. Un sistema semplicissimo. Il tesserino sanitario ce l’hanno tutti, perché non sfruttarlo per migliorare un servizio? La sala d’aspetto è piccola e accogliente, con una gigantografia del bellissimo porto di Brindisi e un acquario che però in questi giorni è imballato (poco male, gli acquari mi intristiscono). Al centro campeggia uno schermo Tv sempre acceso e questa è a mio parere l’unica pecca. Grave. Si cerca di infondere bellezza con gli arredi, con i quadri, le foto, i colori e poi si permette alla bruttezza, all’osceno di riassalirci. Mi sembra una vanificazione di tutti gli sforzi fatti nell’altra direzione. Ma dico io, spegnetela o mandate in onda solo documentari, mettete qualche rivista in più, qualche libro… e invece mi tocca subire quelle trasmissioni che colonizzano le menti di casalinghe e/o pensionati tutte le mattine e i pomeriggi. Davvero terribili. Ed è per me terribile rendermi conto di come hanno distrutto le menti di chi doveva rappresentare il nostro patrimonio di saggezza. È terribile vedere come si fa disinformazione assurgendo ogni chiacchiera da bar a notizia, di come si scambia la leggerezza per stupidità, di come tutto venga annacquato in un cocktail di comparsate, consigli disparati, ammiccamenti, arrabbiature da giustizialisti della prima ora. Vabbè sto divagando ma per me che non sono abituata a queste trasmissioni l’osceno salta subito all’occhio, poi magari mi assuefarei anche io. Anzi sono convinta che dopo una settimana di questo trattamento comincerebbe a sembrarmi tutto accettabile. Ma io resisto e faccio il mio Caviardage cercando di tapparmi le orecchie. Per fortuna comunque l’attesa dura poco, niente a che vedere con le ore passate in attesa della chemioterapia. E credo che scriverò questa cosa sull’agenda messa a disposizione dei pazienti per consigli e suggerimenti.
Altre cose degne di nota. La saletta della dottoressa arredata in giallo e blu, il quadro che ti accoglie quando entri nella sala delle terapia, rappresenta una spiaggia, con dei fichi d’india in primo piano da un lato e dall’altro i 4 libri sacri, più Siddharta. E poi c’è la magnifica vetrata che sovrasta la macchina per la radioterapia. Il primo giorno è stata dura rimanere nella stessa posizione e con le braccia alzate per un’ora e se non ci fosse stata la vetrata forse non avrei resistito. È una vetrata colorata, giallo, verde, azzurro, su cui si affacciano rami in fiore e foglie. Il primo giorno, mentre intorno a me le dottoresse facevano calcoli su calcoli (veniva fuori sempre 100 e invece doveva essere 98, ma non ci ho capito niente), mi sono concentrata tutta nello sforzo di capire se quei fiori fossero veri. Mi sembrava si muovessero seppure impercettibilmente ma era una illusione ottica, o un desiderio, perché quando dopo hanno acceso le luci è stato chiaro che i fiori sono finti, cioè sono dipinti, credo, o sono delle foto, non mi è ancora chiaro ma l’effetto è stupefacente. La bellezza rilassa e calma la mente. Ce ne fosse di più, in tutti gli ospedali ci sarebbe più serenità.